CAFIERO DE RAHO: “LO STATO SIAMO NOI”

file-07680-media Federico Cafiero De RahoFederico Cafiero de Raho magistrato in prima linea intervistato da Laura Caico

Un magistrato in prima linea. Federico Cafiero de Raho, napoletano verace, classe 1952, segno zodiacale Acquario, Procuratore Capo della Repubblica di Reggio Calabria, conosce bene la realtà criminosa campana giacché ha lavorato da Sostituto presso la Procura della Repubblica di Napoli dal febbraio 1984, designato alla Direzione distrettuale antimafia dal 1991,e dal 2006, nominato Procuratore aggiunto, incaricato del coordinamento, nella Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, del pool di magistrati che investigava sulle cosche del Casertano e sull’impero dei Casalesi; è il magistrato che, nel processo “Spartacus” ha ottenuto le condanne all’ergastolo dei capi storici del “clan dei casalesi” e centinaia di altre condanne per affiliati, imprenditori, amministratori locali e politici.

Procuratore, come valuta la realtà malavitosa napoletana?

 “Nel napoletano la magistratura ha condotto un’importante attività giudiziaria di contrasto alla camorra, assicurando alla giustizia i vertici storici dei clan;ciò ha determinato la nascita di nuove figure criminali che aspirano ad occupare posizioni di vertice nei clan decapitati e, a volte, ingaggiano lotte armate nei quartieri per prevalere su gruppi avversi oconcorrenti. Non v’è dubbio che il radicamento sul territorio dei clan storici garantisca illeciti equilibri e, al tempo stesso, con la stabilità camorristica l’apparente tranquillità. Gli arresti dei capi e dei “militari” dei clan aprono vuoti di potere che vengono colmati, a volte, con lotte di successione che lasciano sangue nelle strade. I cittadini percepiscono il deficit di sicurezza solo quando c’è guerra nel quartiere, non anche quando sacrificano la loro libertà per tollerare il controllo e la pressione della camorra.

C’è, in questi ultimi tempi, un’esigenza di migliore vivibilità laddove, da un lato, la fluidità nella direzione e composizione dei clan, interrompe il radicamento e la stabilità, dando luogo a scontri violenti tra i gruppi emergenti e, dall’altro, si moltiplicano i fenomeni di criminalità diffusa e incontrollata, con manifestazioni di violenza e  bullismo, espressione, spesso, dell’operatività dei cosiddetti baby killer.  A Napoli e in Campania è necessario un capillare e costante controllo del territorio da parte delle Forze dell’ordine, ma ciò non è sufficiente. Bisogna anche far uscire le famiglie indigenti ed emarginate dall’isolamento e dai quartieri “dormitorio” in cui sono costrette a vivere e in cui, spesso, trova origine la rabbia per le disuguaglianze che si manifesta in comportamenti violenti attuati da gruppi di giovani,soprattutto,nei quartieri della città in cui predominano agiatezza, ordine, pulizia, ricchezza.

I quartieri più poveri vanno risanati, migliorati, resi vivibili: è questa una condizione che deve valere per tutti; i Comuni hanno il dovere di adempiere con priorità alle esigenze di vivibilità. Le risorse vanno necessariamente trovate, ad esempio, attraverso i fondi derivanti dalle tasse per occupazioni del suolo pubblico o attraverso altre entrate e maggiore partecipazione da parte di chi ha maggiore capacità contributiva, ma anche tagliando quote importanti al montepremi del Lotto e Superenalotto e vincolandole alla destinazione del recupero dei quartieri disagiati.

Occorre creare tavoli permanenti tra Istituzioni e imprenditori, per favorire gli investimenti nelle zone più depresse economicamente, con occasioni di nuovi posti di lavoro. Occorre distribuire sul territorio maggiore cultura, anche pensando a plessi universitari nei quartieri più degradati, per risollevarli e creare apertura e movimento di giovani.

Se si attua una politica capace di favorire gli investimenti, per creare una geografia di interventi tesi a migliorare la vivibilità delle classi meno abbienti e a generare occasioni di lavoro, si abbatte il crimine, quale strumento di sopravvivenza e sostituzione del lavoro. E’ chiaro che non si abbatte tutto il crimine, ma quello dei più sfortunati che hanno scelto il reato come mezzo di sopravvivenza. Sono convinto che sia prioritario aiutare le periferie e i territori meno fortunati con una maggiore equità nella distribuzione di beni e privilegi, poiché l’obiettivo dell’umanità non è la ricchezza ma la serenità, la solidarietà, l’altruismo, la gioia di tutti: come dico spesso agli alunni delle scuole che visito in Calabria, non bisogna rinchiudersi nell’egoismo ma porre la condivisione dei beni e il rispetto dei diritti alla base della nostra società”.

Come si configura Napoli nel sistema investigativo italiano?

“Sono felice di vedere che oggi Napoli gode di altissima credibilità, essendo non solo l’Ufficio giudiziario più grande, ma anche tra quelli più apprezzati. L’Ufficio napoletano è percepito nel nostro sistema inquirente nazionale come capace di impostare e sviluppare indagini di grande respiro senza timidezze né condizionamenti, con eccellente professionalità; la terra di Partenope viene percepita come sede di magistrati di grandissima serietà e preparazione,dotati della cultura del coordinamento, che apre alla condivisione degli orizzonti investigativi con le altre procure e gli altri uffici interessati sul piano nazionale e quello internazionale. Trovo fondamentale la condivisione degli sviluppi investigativi come modalità di coordinamento degli uffici giudiziari e come partecipazione delle diverse componenti della polizia giudiziaria, sin dal nascere delle grandi indagini, poiché essa determina maggiore spinta al risultato in tempi brevi e,con l’eliminazione di barriere e competizioni, genera spirito di squadra, coesione, compartecipazione, ampio confronto e certezza nelle iniziative; d’altronde a Napoli sono stati celebrati molti processi non solo contro la camorra ma anche contro la Pubblica Amministrazione e alcuni noti esponenti della politica, senza mai alcuna timidezza verso i poteri forti: l’obbligatorietà dell’azione penale non conosce deroghe e Napoli può fare scuola in questo senso.”

Lei è considerato la “memoria storica” di un lungo periodo di contrasto al crimine condotto dalla Magistratura italiana e dalle Forze dell’Ordine con processi ed indagini giudiziarie, culminato nel settennato di Spartacus – dove, rappresentando la Pubblica Accusa, ha fatto condannare 27 capi casalesi all’ergastolo e attribuire una summa di 844 anni di carcere per gli altri numerosi imputati –  oltre a essere stato Pubblico Ministero nel processo sull’omicidio Imposimato che ha condannato all’ergastolo Pippo Calò e i suoi correi e oltre ad aver condotto le indagini sull’omicidio di Don Peppe Diana, riuscendo a far condannare gli autori: dopo tanti successi e l’arresto di molti latitanti tra cui Michele Zagaria ultimo capo del clan dei casalesi, riscontra differenze nell’atteggiamento dei cittadini del Sud  verso i rappresentanti della giustizia?

“Ho constatato un sensibile aumento delle persone che denunciano intimidazioni, racket, richieste di pizzo: le vittime cominciano ad aver fiducia e si fanno avanti, confidando nella tutela che lo Stato può garantire e noi, che siamo Stato, dobbiamo proteggere i denuncianti,in quanto sono la parte sana della popolazione che soffre la pressione della criminalità, ed ogni denuncia – scardinando l’omertà – indebolisce la camorra. Chi denuncia deve godere di un’imponente security finché il territorio non sia totalmente bonificato con l’annientamento del clan che lo ha controllato. A Reggio Calabria, per esempio,  i testimoni di giustizia che si sono rivolti all’Ufficio che dirigo e che permangono sul territorio, oltre ad essere garantiti dalle idonee misure disposte dal Prefetto, possono contattarmi in qualunque momento sul mio cellulare, perché, quando hanno deciso di restare nel territorio di Reggio Calabria, dimostrando con la loro presenza che la ‘ndrangheta si può denunciare, ho garantito loro e alle loro famiglie sicurezza idonea a scongiurare qualunque rischio per l’incolumità loro e dei familiari ed ho assunto l’onere di essere sempre immediatamente disponibile a intervenire per qualunque esigenza riguardante la loro incolumità”

Qual è la sua “ricetta” per rendere ancora più efficace la lotta al crimine?

“Ritengo importante aumentare le occasioni di incontro e coesione fra Istituzioni e cittadini, per migliorare e stringere il rapporto con questi ultimi, inmodo da creare un canale di comunicazione diretto tra coloro che soffrono la pressione della camorra e gli uomini degli uffici che devono contrastarla. Per migliorare la strategia di contrasto alla camorra come alle illegalità in genere è necessario avvicinare lo Stato alla gente, dando volti umani alle figure che operano per lo Stato, altrimenti troppo distante: e’ necessario generare fiducia nelle persone e la fiducia la si acquisisce con i risultati ma anche con la vicinanza. La collaborazione del cittadino, con la denuncia, è lo strumento più efficace nel contrasto alla criminalità poiché ampliando le denunce si scardina uno degli elementi costitutivi dell’associazione mafiosa, l’omertà. Se fossero numerose le denunce contro i camorristi, la camorra non esisterebbe più.

Peraltro laddove le denunce si moltiplicano e lo Stato è forte e interviene efficacemente contro le organizzazioni criminali, si è sempre registrato un atteggiamento di sommersione da parte delle organizzazioni criminali, mai uno scontro aperto con lo Stato: così è avvenuto in Sicilia dove, dopo le  stragi “Falcone” e “Borsellino” e quelle attuate dalla mafia negli anni 1993-94, l’azione forte e continuativa dello Stato ha decimato Cosa Nostra e così è avvenuto in Calabria, dove la ‘ndrangheta, che nel ’93 era stata invitata a partecipare alle attività stragiste della mafia, ha rinunciato a quest’alleanza per non subire la stessa sorte”.

Può chiarirci la differenza fra mafia, camorra e ‘ndrangheta?

“La mafia è un’organizzazione strutturata sotto il profilo “militare” e quello economico-imprenditoriale, capace di condizionare la politica o infiltrarsi in essa. In Cosa nostra, al vertice, la Commissione assumeva le decisioni strategiche. La ‘ndrangheta è molto simile al modello mafioso, ma si struttura sul territorio attraverso “locali” che hanno un proprio capo e si determinano con una propria autonomia; al vertice, un organismo centrale, denominato “Crimine” o “Provincia”, che ha sede nella provincia di  Reggio Calabria e che – pur rispettando le autonomie dei singoli “locali” – assicura disciplina, coordinamento e strategie comuni. I “locali”, gruppi costituiti da almeno 50 affiliati, presenti, non solo in Calabria, ma anche – con l’autorizzazione della casa madre calabra –  in altre parti del territorio nazionale, e all’estero, in Svizzera, in Germania, in Olanda, Canada, Australia e in varie parti del globo; i “locali” concorrono tutti all’elezione dell’organo di vertice.

La camorra non ha un identico modello strutturale in tutti i territori, né uguali caratteristiche. Vi sono organizzazioni camorristiche strutturate sul modello mafioso (come il clan dei Casalesi o i clan Vesuviani), la cui caratteristica è il radicamento sul territorio, che ha determinato la stabilità della struttura, non solo “militare”, ma anche economica (imprese operative in vari settori e soprattutto in quello edilizio); tali organizzazioni sono capaci di condizionare la politica locale e, a volte, infiltrarsi in essa, individuando propri esponenti. Diversamente, nel territorio metropolitano di Napoli, la camorra è frammentata in clan la cui operatività è spesso circoscritta ad aree di quartiere o poco più. Questi clan sono caratterizzati dalla fluidità e transitorietà, determinata dai rapidi cambiamenti in conseguenza del contrasto giudiziario odegli scontri interni; i clan metropolitani sono, per lo più, dediti ad attività estorsive, meno ad infiltrazioni politiche ed economiche, non riuscendo a condizionare gli enti locali e avendo una limitata capacità di controllo dei voti.” 

Che modifiche occorrono a Napoli e in Italia per il trionfo della legalità?

“Bisogna evitare che lo Stato venga percepito come un meccanismo che stritola il cittadino con l’imposizione tributaria. E’ necessario eliminare nel settore pubblico clientelismo e privilegi, favorendo il benesserecollettivo e intervenendo sul territorio che soffre. E’ necessario attuare una politica di solidarietà a sostegno delle imprese oneste e in aiuto delle famiglie indigenti, con la creazione di posti di lavoro: è necessario attuare una politica dell’uguaglianza, che sia fondata sull’etica e sulle regole di comportamento, finalizzate al rispetto del cittadino, nei cui confronti le articolazioni pubbliche dovrebbero porsi come padre, fratello, amico, capace di capirne le difficoltà.

Lo Stato non può essere un’entità indifferente, rispetto alla condizione di sofferenza di tanti cittadini e deve attivarsi per migliorarne la condizione di vita e – al tempo stesso – deve essere in grado di espungere dalle proprie articolazioni i soggetti che lucrano sulla loro posizione, cancellando la corruzione che ristagna in tanti settori: ognuno di noi, nel proprio ambito, deve rispettare le regole e fare la propria parte per portare lo Stato al cittadino perché – al di là di ruoli, funzioni e rappresentanti – lo Stato siamo noi.”

 

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