Elio Bava: La fine della metafisica? La morte di Dio e i nuovi sentieri dell’oltre. L’analisi di Nietzsche, tanto dolorosa e dura, porta il segno lirico di una speranza, l’indicazione di un anno zero dell’umanità.
“Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? […] Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione?” Così Nietzsche nel suo accorato grido “lirico” ne La gaia scienza.
Su questa invocazione/maledizione potente, il filosofo sembra voler designare il tempo scaduto del pensiero metafisico, la scomparsa d’ogni illusione di trascendenza. “Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare?”
Nell’annuncio del vuoto incolmabile che sembra derivare dall’assassinio di Dio, Nietzsche si avvia a presagire e leggere l’avvento di una società urbana totalmente laicizzata e dedita al consumo d’ogni risorsa, decisa a vivere il tempo che precede il Nulla cercando di cogliere il meglio possibile nel cerchio chiuso di un al di qua inesorabile. Tanto la scimmia, quanto il superuomo, evocati in Così parlò Zaratustra, più che ritrovare l’uomo su di una corda tesa sull’abisso, si ritrovano dentro l’oscurità dell’abisso stesso.
Ma l’analisi di Nietzsche, tanto dolorosa e dura, porta il segno lirico d’una speranza, l’indicazione di una sorta di anno zero dell’umanità, un punto, per quanto traumatico, di un nuovo inizio:
“Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”
Il “folle” intravvede la speranza in quello che è comunemente definito “Nichilismo attivo”.
Un’azione ancora da compiere perché “il lume delle costellazioni vuole tempo” e la luce ha da compiere distanze cosmiche. La metafora del bagliore stellare allude, sì, a leggi fisiche, ma inevitabilmente lascia intendere che v’è un quid da perseguire, illuminare perché, infine, si sveli.
Certo si richiama il lume della ragione dell’amato Voltaire ma con la lanterna del “folle” in un deserto buio e sconosciuto. All’esterno della caverna platonica non c’è da percepire una verità da svelare, ma una dantesca “selva oscura”. Il Nulla e l’Oltre sembrano coincidere per il viaggiatore assetato di conoscenza, quell’ “argonauta dell’ideale” di cui Nietzsche parla nel quinto libro della Gaia scienza dove, tra l’altro, troviamo, in appendice, gli Idilli di Messina, composizioni liriche in versi che cantano l’inquietudine percettiva di un io sospeso tra l’amore, la sorpresa e la disillusione.
Può l’arte e, in questo caso, la poesia far luce in questo oltre oscuro? Può il rinnegato Platone riapparire, nella sua componente orfica, nel somnium lirico dell’argonauta? La “buona volontà dell’apparenza” (così è definita l’arte) può “riposarci dal peso di noi stessi”, dal peso di quell’ “eterno ritorno” che ossessiona il ciclo dell’esistenza?
Qui Nietzsche sembra cogliere l’aura che di lì a poco si respirerà nella stagione delle avanguardie artistiche del primo Novecento, quell’onda lunga che va da Jarrya Bretòn passando per Artaud, Picasso e gli altri.
Quello che ho definito l’anno zero del pensiero filosofico sembra aprire la strada ai nuovi sentieri dell’Oltre. Cito un frammento dall’idillio Mistero notturno:
Fu un’ora, forse anche due,
O fu un anno? -Ma ecco, a un tratto,
Sprofondarono sensi e pensieri
In un’eternità indistinta,
E un abisso senza confini
Si spalancò: tutto era passato!
“… un’eternità indistinta, / E un abisso senza confini/Si spalancò…”.
Forse è in questi versi che s’annida la disperata ricerca del quid cui accennavo, nella sospensione della lucidità razionale e nell’avvertenza di un indistinto, quel “soffio” di cui parla Artaud anch’egli ispirato alle soglie del delirio.
Ecco allora, forse, il punto. Se Nietzsche nega la trascendenza, ne decreta la fine, si ritrova a fare i conti con l’immanenza di uno spirito che sottrae l’uomo da una pura persistenza biologica, aprendo, così, la strada al senso panico dell’Oltre come un misterioso territorio interno alla coscienza, un territorio dove l’arte può avere un ruolo rilevante (come già ricordava Platone nello Ione,qualora questa venga ispirata dalle Muse).
Il ragno di Umano, troppo umano continua, così, a tessere la tela sospesa sull’abisso dell’eterna domanda: “Chi sono io e perché?”.
di Elio Bava